Elisabetta Sirani Galatea
Elisabetta Sirani, Galatea, 1664; olio su tela, Modena, Museo Civico d’Arte
Ritenuta dai suoi contemporanei “il miglior pennello di Bologna”, l’artista di cui parleremo tra poco, fu fregiata del riconosciuto titolo di “maestra”, mettendo a punto uno stile elegante ed espressivo.
Parrebbe cosa poco eclatante detta per l’arte, ma la denominazione assume connotazione pregevole se parliamo di una donna. Siamo nel 1600 e le abilità artistiche femminili non sono affatto contemplate e rese note. Le donne, private di ogni prospettiva di formazione e perfezionamento hanno la possibilità di percorrere tre strade principalmente: divenire spose, madri o religiose.
Elisabetta Sirani morì precocemente a 27 anni. Fu pittrice, incisora e disegnatrice. Realizzò oltre 200 tele (seppur la metà delle quali oggi perdute), quindici stampe e innumerevoli disegni e acquerelli nell’arco di una carriera durata poco più di un decennio (1654-65). Una media di venti tele all’anno, produzione non comune per qualsiasi artista. Oltre a dar prova di un’arte prolifica, Elisabetta non ebbe rivali nella rapida e facile esecuzione del suo operato, conseguendo la fama di pittrice ritrattista in grado di completare un busto in una seduta.
Elisabetta nacque venerdì 8 gennaio 1638 nella città più importante dello Stato Pontificio dopo Roma: Bologna. Fu una delle figure artistiche più innovative, dotte ed influenti di Bologna, specialmente nei confronti delle donne operanti in città. Fu a capo della bottega artistica di famiglia e fondatrice di una scuola d’arte per fanciulle al di fuori delle mura d’un convento.
Agli Uffizi di Firenze presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, nel 2018, si è tenuta la mostra Dipingere e disegnare “da gran maestro”: il talento di Elisabetta Sirani. Una mostra inedita che ha messo insieme i capolavori di un’artista della quale la storiografia contemporanea non ha poi ricordato molto.
Elisabetta Sirani divenne la figlia più famosa dell’affermato artista e mercante d’arte bolognese Giovanni Andrea Sirani (1610-1670), che le insegnò a dominare i pennelli. Il padre aveva avuto per maestro Guido Reni, il pittore del tempo più importante d’Italia, al cui stile classico Elisabetta fu al principio iniziata prima di raggiungere la propria autonoma “maniera da sé”.
Essere figlia di un artista spianò ad Elisabetta la via di quel successo che avrebbe fatto di lei un’affermata pittrice professionista in un settore a netta preponderanza maschile. Di lei scrive il suo mentore il conte Carlo Cesare Malvasia (come ricorderete già citato per un altro bolognese doc Annibale Carracci).
La fortuna di Elisabetta fu quella di vivere in una città di ampie vedute, permissiva, rispetto ad altre, nei confronti dell’educazione femminile. Le donne intenzionate a intraprendere la carriera artistica avevano per la maggior parte un parente maschio disposto a istruirle nella bottega di famiglia. Ed Elisabetta lo aveva: suo padre.
Commissioni ininterrotte provenivano non solo dalla Chiesa cattolica, ma anche da mecenati privati in cerca di immagini devozionali che arricchissero di bellezza e maggior prestigio le loro dimore. Le famiglie più facoltose della città erano interessate a commissionare dipinti a soggetto profano di cui ornare i loro palazzi patrizi, mentre l’accademica cittadina necessitava di ritratti dei suoi più illustri dottori, scienziati e giuristi. Elisabetta era in grado di soddisfare richieste per quadri a tema sia sacro sia mondano offrendo una gamma di generi e soggetti che andava dalla pittura storica alle pale d’altare di grandi dimensioni senza trascurare le opere devozionali di formato ridotto, oltrechè le raffigurazioni tratte dalla mitologia classica o dalla letteratura fino all’allegoria e alla ritrattistica. L’eccezionalità di Elisabetta consistette, nel tempo, nel fatto che l’istruzione nel disegno e nella pittura per nuove e giovani donne venisse impartita direttamente dall’artista come formatrice anziché dal padre, dal marito o da qualche fratello delle apprendiste. Anziché da un uomo. Questa fu la differenza.
Accanto alle due sorelle minori Barbara e Anna Maria, compare fra le sue allieve Ginevra Cantofoli, artista già affermata che avrebbe stretto amicizia con Elisabetta divenendo la sua assistente. Il conte Malvasia scrive che una serie di giovani donne e fanciulle bolognesi s’ispirarono al modello artistico della Sirani. Così cita: “seguono l’esempio di questa tanto degna pittrice” ed annovera un elenco di undici apprendiste formate direttamente da Elisabetta presso “la sua scuola”.
Per mettere a tacere le dicerie volte a screditare l’idea che una donna come lei avesse mai potuto realizzare in concreto tutti i quadri recanti la sua firma, Elisabetta concesse ai committenti di assistere alle sue sedute di pittura nel proprio studio, col chiaro intento di puntare sull’autopromozione.
Teneva un registro delle sue pitture e delle stampe sotto forma di diario di lavoro o Nota delle pitture fatto da me Elisabetta Sirani, alla cui pubblicazione provvide in seguito Malvasia nell’ambito del proprio scritto Felsina Pittrice, del 1678.
Prima di Elisabetta nessuna artista donna aveva mai tenuto un simile registro della propria opera. In questo diario di lavoro Elisabetta descrive ogni singola commissione, il soggetto, il mecenate per conto del quale realizzava questo o quel dipinto, fornisce ragguagli di rilievo sia sull’attività quotidiana presso la bottega Sirani sia sulla prassi artistica, illustrando idee e concetti alla base delle sue opere molteplici e multiformi.
La Sirani divenne professoressa dell’Accademia di San Luca a Roma. Stiamo parlando dell’ Accademia delle Arti della Pittura, della Scultura e del Disegno che solo dal 1607 si era aperta alle donne sia come allieve che in qualità di docenti. Sussisteva ancora, però, il divieto per loro di assistere alle riunioni (Statuto 20); solo al 1617 si data la piena integrazione femminile nelle attività istituzionali. Il titolo di professoressa attribuiva a Elisabetta la dignità di “maestra”, che le conferiva a sua volta la facoltà di dirigere da docente la propria bottega, accogliendo allieve e apprendiste, per le quali si faceva carico di vitto e quote d’iscrizione corporative. Elisabetta giunse a capo della bottega avviata da suo padre a poco più di vent’anni, assumendo su di sé onori e oneri direttivi già propri di suo padre. Giovanni Andrea Sirani aveva guidato le sorti della sua casa da capofamiglia e quelle dell’omonima bottega di via Urbana a Bologna da “capomaestro”.
Oggi il nome di Giovanni Andrea Sirani suona meno noto di quello della più celebre e talentuosa figlia Elisabetta, eppure non possiamo dimenticare di come anche il padre fu annoverato come uno degli insegnanti di maggior spicco che Bologna vantasse nell’arte della pittura e della stampa e “secondo a nessuno”.
Il 1662 impresse una svolta nella vita dei Sirani e della loro casa e attività. Fu infatti allora che, da artista ormai affermata, Elisabetta assunse la direzione della bottega di famiglia all’indomani della grave infermità sopraggiunta al padre. L’artista ormai anziano soffriva di una gotta artritica responsabile di una forte distorsione alle mani che lo portò all’estrema condizione di non poter più maneggiare i pennelli. Elisabetta s’incaricò allora di guidare gli apprendisti e gli assistenti del padre senza per questo abbandonare la docenza presso il suo istituto d’arte femminile.
Malvasia e Cospi riconoscono entrambi, nell’Elisabetta, la sua levatura di “maestra”, affermando che i proventi derivanti dal richiestissimo lavoro di Elisabetta sostentavano la sua gente al completo: “la figliola la quale in oggi quì è ritenuta maestra et è lei che mantiene con sua lavori tutta la sua numerosa famiglia”. Col denaro guadagnato apprendiamo dai documenti, che l’artista, oltre a pagare le lezioni di musica per sé, acquistava beni utili alla casa e faceva fronte alle spese mediche per la madre, il fratello e le sorelle. I compensi ricevuti da Elisabetta ad honorarium (consistenti, perlopiù, in gioielli preziosi) servivano “a comun beneficio della Casa” la quale comprendeva non solo i nove membri dell’ampia famiglia Sirani con relativa servitù, ma anche gli apprendisti e gli assistenti di bottega, che a tratti erano più di una ventina.
Elisabetta si ritrovò insignita di quel duplice ruolo di capofamiglia e capomaestra che, oltre a consentire alle due sorelle minori di concludere con lei il tirocinio fino alla maturità e all’autonomia artistico-professionale, permise al fratello Antonio Maria (nato nel 1649) di godere, dal 1664, del supporto necessario a diventare discepolo dell’illustre accademico Luigi Magni, conseguendo alla fine del percorso – nel 1670- la laurea in Medicina e Filosofia dell’Università di Bologna.
Una donna, una sorella maggiore, un’imprenditrice responsabile e di talento. Questo fu Elisabetta Sirani. Non dimentichiamo di essere nella metà del 1600.
Fra il 1662 e il 1664, Elisabetta aveva raggiunto il profilo di una delle personalità artistiche più importanti e ricercate di Bologna. Tutti volevano acquisire una sua opera, ogni rango della società bolognese la cercava. Ma ci pensiamo? Proviamo ad immedesimarci in quel contesto sociale, nel pregiudizio rivolto alle donne. Siamo davanti ad una donna che con il suo talento, al sua determinazione e il suo sogno stava aprendo un nuovo tempo per l’arte che mai dovrebbe aver conosciuto connotazioni sessuali.
Prima di lei, conosciamo un’altra storia di affermazione e non solo, quella di Artemisia Gentileschi.
Ma torniamo ad Elisabetta che assunse in breve tempo una fama internazionale. Monarchie e diplomazie furono da lei percorse tra Italia ed Europa.
I Medici di Firenze si distinsero, per esempio, come suoi fautori; furono soprattutto le donne del casato a favorirne il successo oltre confine: Margherita de’ Medici, promosse il dipinto intitolato Madonna col Bambino, Santa Elisabetta e Santa Margherita (1661, opera collocata nella chiesa di San Lorenzo in Fonte, Roma); Vittoria della Rovere, promosse l’opera Amorino Trionfante (1661) che Vittoria volle destinare come dono di nozze per la nuora la Principessa di Francia Marguerite-Louise d’Orléans (l’opera è oggi conservata in Collezione privata a Bologna). E poi il principe Leopoldo de’ Medici, fratello di Margherita e grande collezionista, avrebbe in seguito commissionato la sua Allegoria del buon governo dei Medici- Giustizia, Carità e Prudenza (1664, oggi conservata nel Comune di Vignola).
Ma poi giunse improvvisa la morte di Elisabetta…
Spentasi nel fiore della giovinezza, fece sprofondare il padre nella più cupa prostrazione. La cosa non sorprende: sopraffatto senza dubbio dal dolore di un simile lutto, con la figlia l’uomo perdeva anche l’asse portante dei propri affari. Giovanni Andrea dovette quindi riassumere le vesti di capomaestro della bottega Sirani, che riprese a dirigere con l’ausilio di Lorenzo Loli e delle due figlie che ancora gli restavano, Barbara e Anna Maria.
La fine precoce di Elisabetta, morta a 27 anni, fu avvolta nel mistero: si accusò una sua cameriera di averla avvelenata per invidia e venne istruito anche un processo. La verità, pare dagli studi recenti, fu che Elisabetta morì per un’ulcera perforata, forse per il troppo lavoro che le fece respirare a lungo le sostanze tossiche utilizzate per dipingere.
Ed ora giungiamo all’opera…
La “Galatea” è considerata tra le opere più importanti della pittrice per la grazia dell’invenzione: “col suo gesto affettato di scegliere la perla, il busto esile e le gambe tomite, ben rappresenta l’umanità cara ad Elisabetta, un po’ fanciulla, ma anche mondana”. Fiorella Frisoni (1992).
La Galatea è semisdraiata su di una conchiglia trainata da delfini mentre coglie una perla da un piattino presentatole da un putto alato.
È una Galatea dai tratti adolescenziali, col cerchietto in capo a dar ordine a una chioma dal taglio moderno, col velo agitato dal vento a formare un grande cerchio vermiglio che riprende un motivo largamente praticato ed entrato a far parte del repertorio tipico di molti pittori felsinei, e raffigurata nell’atto di solcare le onde marine su di una bizzarra e scomoda conchiglia trainata da un grande delfino. Una Galatea ch’è quasi un’incarnazione dell’ideale femminile che popola l’immaginario d’Elisabetta Sirani: una ragazza dai lineamenti dolci e dal corpo minuto ma formoso e aggraziato, che denota un malcelato orgoglio giovanile col suo sguardo a metà tra l’innocente e il malizioso, e che col gesto studiatissimo della mano destra, colta mentre sceglie una perla dal vassoio portatole dal putto, palesa con palmare chiarezza il delicato garbo dei propri modi.
Ma chi era Galatea?
Figlia di Nereo e di Doride, era una delle cinquanta ninfe del mare e il suo nome greco, Galatea, vuol dire “colei che ha la pelle bianco-latte”, come la spuma del mare. Il mito la mette sempre in relazione a Polifemo, anche se esistono due differenti versioni. Nel racconto più noto, è amata dal ciclope dal corpo mostruoso, ma ama però il bel pastore Aci, figlio di Pan e della ninfa Simetide. Un giorno, il ciclope, preso dalla frenesia di vedere la sua amata, si mise a cercarla nei boschi attorno l’Etna. Polifemo scorse Galatea che riposava in riva al mare sul petto dell’amato. La ninfa, impaurita, si tuffò sott’acqua, nel mare lì vicino ed Aci si diede alla fuga. Polifemo, ingelosito ed accecato dalla rabbia, gli lanciò contro una rocca che schiacciò il pastore. Altro mito vuole però Galatea ricambiare l’amore del ciclope. Così i due avrebbero anche avuto dei figli: Gala, Celto e Illirio, eponimi dei Galati, dei Celti e degli Illiri.
Grazie all’accurato libro contabile tenuto dalla stessa Sirani, siamo in grado di precisare la destinazione di questo squisito capolavoro della sua estrema attività. Sotto l’anno 1664, il penultimo della sua brevissima vita, ella annota:
“Una Galatea picciola in mare, guidata da due Delfini, con due Amoretti, uno dei quali urta in certe cappe, dove è stesa la detta Galatea, e l’altro le presenta una madreperla aperta con varie perle, dove ella sta in atto di levarne una, per l’illustriss. sig. marchese Senatore, e Balì Ferdinando Cospi”.
Già l’anno precedente la Sirani aveva eseguito altre opere per lo stesso Cospi: il Ritratto di Vincenzo Ferdinando Ranuzzi in veste di Amore, ora conservato nel Museo Nazionale di Varsavia, e una Madonna della cintura da donare al Comune di Bagnarola di Budrio, ora perduta.
Altri quadri della pittrice, non acquistati direttamente da lei, figurano nell’inventario redatto nel 1686 alla morte del marchese: una Panfila che pettina il bambace, una Cerere e una Diana, un Puttino. La Galatea è assente da questo elenco. Scrivendo sul finire del XVIII secolo Marcello Oretti ricorderà la Galatea tra i quadri non più conservati in palazzo Cospi.
È probabile che nella scelta del tema da parte del marchese Cospi giocassero un ruolo importante i suoi interessi naturalistici. La Galatea fu l’ultima opera che la giovane Elisabetta eseguì per il nobile. L’importanza del committente stimola ulteriormente la Sirani ad un risultato di straordinaria eleganza. La grazia dell’invenzione e la pastosità della pennellata sono peraltro caratteri propri dell’ultima attività della pittrice, mancata quando la sua arte andava esibendo una nuova maturità stilistica e mentale che sembra far da ponte tra Guido Reni e Carlo Cignani.
Il celebre Museo Cospiano, legato nel 1675 a quello Aldrovandiano in Palazzo Pubblico, costituisce infatti il nucleo più antico dell’attuale Museo Civico di Bologna.
Nella ricchissima cornice originale, vero capolavoro di intaglio, le conchiglie e i delfini, alludono al tema marino trattato nel dipinto. L’opera è firmata e datata sul bordo del cuscino che sottosta alle curve della ninfa. Ancora una volta si assiste a quell’ingegnoso gusto che portava Elisabetta ad apporre la sua firma nelle aree più impensabili dei suoi dipinti.
La popolarità di Elisabetta Sirani, la sua affermazione professionale e il plauso critico di cui godé fra i contemporanei posero le basi della sua fortuna tra i posteri, consolidandone il rilievo nella storia dell’arte e il contributo alla rielaborazione di tradizioni artistiche preesistenti.
La sua mirabile forza inventiva e innovativa si espresse nell’ideazione di un repertorio tematico inedito e inconsueto, la cui unicità contenutistica si rifletteva in scelte iconografiche improntate al ritratto di eroine tratte dalla Bibbia e dalla storia del periodo classico (le cosiddette “femmes fortes“ – donne tenaci e coraggiose come Giuditta, Dalila, Porzia, Timoclea, Artemisia, Cleopatra, Circe, Iole o Panfila). In questi dipinti storici Elisabetta diede vita a eroine che, col loro piglio indomito e volitivo, vantano le virtù positive dell’acume, dell’ardimento e del valore trionfante. L’artista approfondì le gesta di queste energiche figure storiche, fondando la preparazione delle tele che le ritraggono, da un lato, basandosi sulla lettura dei testi e dei manuali antichi dall’altro, sullo studio delle fonti illustrate comprese nella collezione d’arte della famiglia Sirani.
Elisabetta fu insomma una delle prime a vedersi pubblicamente insignita da colleghi e critici del nome di “virtuosa”, detentrice di quel genio creativo e di quell’”invenzione” che da Aristotele in poi erano ritenuti fuori dalla portata di una donna. Fu inoltre una delle rare personalità artistiche bolognesi a firmare le proprie opere; in un’epoca contraddistinta dalla scarsa rilevanza giuridica della firma apposta da donne, la pittrice elabora quindi ingegnosi espedienti per rivendicare la propria identità e autorità sul piano professionale, artistico e sociale. Perseguì questo fine “ricamando” il proprio nome su fregi d’abito, risvolti, scollature o intrecci e fiocchi a ornamento di cuscini, ovvero incidendolo sugli elementi architettonici delle sue tele e conferendo alla sua firma una foggia spesso in stretta attinenza col contenuto e il messaggio delle immagini che realizzava.
I dipinti di Elisabetta raffiguranti la Vergine e il Bambino e quelli incentrati sulla Sacra Famiglia offrono alcuni dei più incantevoli e straordinari esempi di pittura mariana a lei coeva – rappresentando, fra l’altro, per l’artista, la vera fonte stabile di reddito. Tali opere erano note come “quadretti da letto”, pitture di formato ridotto a uso devozionale privato concepite per la meditazione, la preghiera e lo scambio emotivo. L’elemento di cui Elisabetta infuse le sue opera fu appunto un’adesione sentimentale scaturita dalla profonda empatia dell’artista verso il proprio soggetto.
Rimasta nubile e svolgendo pertanto da sola la propria attività di artista, Elisabetta Sirani offrì un contributo essenziale alla professionalizzazione della prassi artistica femminile nell’Italia della prima età moderna. Il suo lascito consiste nell’aver dischiuso vie alternative all’istruzione destinata alle donne, aprendo la sua bottega a fanciulle che – nate spesso in famiglie di artisti, ma, talora, anche in ambienti nobiliari – intendevano avventurarsi nel campo delle arti figurative. Incarnando nella sua vita la versione femminile dell’artista professionalmente attivo, del maestro e dell’insegnante, Elisabetta propose un’alternativa radicale al modello del mentore maschile consolidato nell’educazione artistica.
Bologna si dimostrò terreno particolarmente fertile per simili evoluzioni, forte di una tradizione umanistica segnata da docenti universitarie, scrittrici, editrici, ma anche pittrici e scultrici.
Essere donne nel Seicento non era certo semplice. Mancava ancora molto al femminismo e alle rivendicazioni di parità tra i due sessi. Elisabetta Sirani si rivolterebbe nella tomba sapendo che il più comune apprezzamento a lei indirizzato è ancora oggi “dipinge da homo”, utilizzato per primo dal canonico conte Carlo Cesare Malvasia, autore della più importante biografia dei pittori bolognesi. Il fatto è che al tempo veniva considerata squisitamente maschile non solo la professione di pittore, ma anche lo stesso concetto di successo. Le donne potevano raggiungere la celebrità e l’agiatezza solo di riflesso da un uomo, per matrimonio o per eredità paterna. Ecco spiegata allora l’insistenza a “mascolinizzare” il talento artistico della pittrice. Dunque una sorta di essere ambiguo di comodo, Elisabetta: uomo quando ci fosse da decantare le sue qualità, donna per sottolinearne i difetti. Elisabetta costituiva un’eccezione a un modello maschile consolidato, che proprio dalla straordinarietà del fenomeno risultava rafforzato. Ma la ricompensa per la Sirani, comprensiva degli interessi, è arrivata con il passare dei secoli. Come dice, infatti, Antonio Pinelli nel suo articolo ne “La Repubblica” del 31 gennaio: “alle rare pittrici che sono state in grado di emergere grazie alla loro tenacia e al loro talento è toccata la doppia ricompensa morale di un consenso di gran lunga superiore a quello di tanti pittori maschi di pari levatura: in vita per un’ammirazione quasi morbosa, oggi per il contrappasso dei gender studies”.
Fonte principale:
Adelina Modesti, “Maestra Elisabetta Sirani, ‘Virtuosa del Pennello'”, Imagines, n. 2, Agosto, 2018, pp. 84-97.
Bibliografia: